Impression, Cetona. Mostra personale di Stefano Fontana

Critica di Ettore Ghinassi

Per Stefano Fontana

Chi, per un certo tempo, per professione o anche solo per diletto, abbia frequentato la cultura figurativa torinese del novecento, non tarderà a scoprirne l’inconfondibile cifra in queste opere di Stefano Fontana.
Il rigore e la disciplina pittorica, il gusto alessandrino per la finezza esecutiva (con la riscoperta ad esempio di tecniche sofisticate come la punta d’argento), ma senza acribia o puntigliosità da ossessione mimetica – essendo anzi irrinunciabile, una necessità estetica, la freschezza della stesura cromatica, l’immediatezza un po’ selvatica della traccia depositata senza pentimenti – infine il calcolo compositivo, che sa trasformare un supporto neutro in un campo di forze, una testura ritmica di pieni e di vuoti, in cadenze di toni bassi e luci smorzate e accensioni, sono tutti caratteri appartenenti di diritto, e quasi in esclusiva , a quel modo di intendere la pittura che dal magistero di Felice Casorati arrivò a lambire anche gli artisti della fronda anticasoratiana; Albino Galvano, i Fratelli Casoni, i sublimi Mario Davico e Gino Gorza, con la sola eccezione forse di Carol Rama, irriverente ed eretica per nascita.
Artista giovane, lontano da quei maestri di due generazioni, Stefano Fontana ne ha tuttavia appreso la lezione fondamentale: che l’invenzione – l’invenzione autentica, quella che si apparenta con nomi strani e si chiama ora il nuovo, ora l’inatteso, ora l’intangibile, ora il senza riparo – non percorre la strada delle trovate tematiche, della smania espressiva di contenuti ideologici o simbolici o letterari, ma scaturisce dalla pittura stessa entro le sue stesse trame: dalla pittura che si dipinge, dalla mano che si cerca e si addestra, dall’occhio che riesce a captare quell'”impercettibile tremito del finito”, quel sovrappiù di grazia e di potenza del quale l’opera, per dirla con Agamben, ” si circonda e si aureola”.
È così allora che lavorando da pittore e solo da pittore, Stefano oltrepassa spesso (e, per chi scrive, felicemente) la barriera del naturalismo, l’urgenza narrativa, per lasciare che l’atto di depositare un segno, un colore, una separatrice d’ombra diventi un puro grafema pittorico, avventura della mano che si interroga, e insegue e “segna” un movimento, riconoscendovi una propria indole, una singolarità di relazione tra soggetto e mondo. Che poi quel grafema abbia un significato, un senso, un fine, è faccenda che ri-guarda chi guarda e non chi dipinge, se è della razza di coloro che si ritrovano nelle parole di un indimenticabile maestro che diceva della sua pittura: “…una protoscrittura, un impulso afasico, linee di un non-luogo – o, all’inverso, pura deissi: il monosillabo ‘qui‘ – pneuma di pelle albina in un ovoide” (da una lettera di Gino Gorza del 9 gennaio 1998)

ettore ghinassi

Viareggio 2 settembre 2004